Ieri sera m'ha punto un'ape.
Bruciava un tramonto incendiario oltre il terrazzo, dietro le case, sopra la gru che costeggia la scuola in costruzione. A poco a poco il sole scendeva e scaldava il cielo, morendo in un calore d'inferno a cui stentiamo ad abituarci.
Il lavoro era finito da appena mezz'ora. La cena era durata un lampo, lì da sola, in cucina, scalza e poco vestita. Aspettavo la doccia, stavo per farla. E quell'ape attendeva che la liberassi dalla trappola in cui s'era cacciata, per poi morirmi addosso.
Il dolore cresceva sotto l'acqua calda, stilettate bollenti mi falciavano la pelle. In quella zona tra il seno ed il collo, in cui m'aveva punto, non si poteva neanche passar la spugna.
Mi guardavo il corpo nudo nei camerini, oggi.
Stentavo a riconoscerlo.
Ero io, quella ragazzetta? O era un'altra che stavo guardando da fuori?
Ma no, quei capelli ricci perennemente spettinati erano sicuramente i miei. E allora era mio anche tutto il resto. Le ossa esposte delle costole, il lungo graffio rosso sulle vertebre, il culetto tondo nel perizoma, quelle gambe bianche che non m'erano mai piaciute.
Mi sono sentita piccola e fragile, chissà perché. E quella puntura addosso svettava dolorante, chiedendomi di estrarre finalmente quel pungiglione che non mi dava tregua.
Talvolta, come oggi, vivo ancora momenti in cui la percezione del mio corpo è così vaga da far spavento. Ne seguo i contorni con gli occhi, più e più volte, con la difficoltà atavica di chi non si riconosce. Ed ho l'atteggiamento tipico di chi, da fuori, viene definito un essere superbo e vanitoso. Il tutto mentre cerco semplicemente di capire dentro quale cornice sto vivendo. Quali siano i miei confini, i miei orizzonti, i limiti della mia pelle. Quale sia davvero la casa della mia anima.
Ho comprato qualcosa dopo diversi mesi, avevo bisogno di fare quello che le donne fanno, a volte, quando si vogliono distrarre. Prender cura di sé. Accarezzare.
Un paio di jeans attillati color vino.
Una canotta dello stesso colore.
Dei pantaloncini di jeans.
C'era gente, troppa. Ce ne siamo andati poco più di un'ora dopo. Abbiamo pranzato in giro, velocemente.
Durante il viaggio di ritorno ho cercato di imparare una canzone nuova. E ho pensato a mia madre, a mia suocera, a mio fratello, al lavoro di domani, alla guerra, i missili, le bombe nucleari, alla mia vita in generale. La macchina che correva veloce ed io che ormai desideravo solo un caffè.
Oltre i pensieri, un silenzio bellissimo dentro cui rotolarsi.
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