Quando mi chiedono a che fiore assomiglio, sul serio io non ho dubbi.
Senza tentennare rispondo: un papavero.
Una macchia rossa sull'asfalto, a ridosso delle strade, in mezzo all'erba alta.
O su quei prati vastissimi, dove l'orizzonte sembra non arrivare mai.
Una macchia rossa che non si nasconde ma si distingue, incurante di quanto delicati siano i suoi petali sottili.
Esposta al vento, alle intemperie, uno stelo filiforme che oscilla sotto una fulgida capigliatura.
Ce ne sono di fiori più belli, altroché.
Ci sono le rose, regine di ogni giardino che si rispetti.
Ci sono le ortensie: opulenti, formose, elegantissime.
Le dalie.
I tulipani.
I garofani.
Le calle.
I gigli.
Le peonie.
A ben pensarci, ciascuno di questi fiori è più amato di un papavero.
Ma al papavero non importa.
Il papavero cresce senza chiedere permesso, si ostina tra le fessure, si circonda solo di altri come lui.
Non ha bisogno di essere coltivato, si coltiva da sé.
E vien su già coloratissimo, un turbine di sensazioni violente che durano appena una manciata di settimane. E poi muore, sembra estinguersi, semplicemente finisce.